Il tamarro

Eccolo lì il ragazzetto, seduto sul divano, imbarazzato e teso come la
corda di un violino.
Non è quello che mi aspettavo.  E’ più basso del
previsto ed è anche più magrino.
Inoltre è vestito da tamarro, un vero tamarro imbarazzato.
E io che sono esteta ai massimi livelli….io che soffro
alla vista di calze corte e camicie hawaiane….

– Spogliati, vediamo se nudo sei meglio.
Lui si sfila la maglia e sotto c’è quel suo torace quasi
acerbo;  mi ricorda il mio primo marito, tennista anche lui,
e mi fa quasi tenerezza.

– Devo continuare Madame?
– E certo, che aspetti?
Si spoglia , rimane in boxer.

– Su su, via anche quelli.
E’ già eccitato, il ragazzo. Mi viene da ridere. Lui è
ancor più in imbarazzo.

– Bacia i piedi della Padrona, svelto!
Lui si inginocchia rapido e si china a baciarli, li lecca e
sospira. Sfilo il piede dalla scarpa e glielo infilo in
bocca. Lui ansima e succhia.

– Sali un po’ su, schiavo, con quella lingua….
Lui sale adagio , esita, non osa andare oltre il ginocchio,
lo sciocchino.
Gli prendo la testa e me la metto fra le gambe.
Lui lecca la stoffa del mio body nero.

Non so, non è di mio gusto, il suo corpo non mi dice
niente , devo vedere come si comporta prima di decidere cosa
fare del piccolo tamarro.

Gli metto un collare, lo aggancio a un guinzaglio e me lo
porto di sopra nella stanza dei giochi.
Lo faccio appoggiare al tavolo del dolore.
Vediamo un po’ questo sederino cosa regge.

– 5 colpi , schiavo, contali.
– 1…..2…..3….4…….5…….grazie Madame!
– Ancora 5 schiavo!
– 1…..2…..3….4…….5…….grazie Madame!
Metto un po’ più di forza nel colpo e infilo una sequenza
rapida, 1 2 3 4 5 .
Urlicchia, il tamarrino, si alza e si copre con le mani la parte
dolorante.

– Ora stenditi sul tavolo sulla schiena, alza le braccia,
così.
Gli lego i polsi e li fermo ai piedi del tavolo, lui è
tutto steso e tutto eccitato.
5 colpi e vediamo come reagisce.

Si lamenta un po’ ma regge.
Altri 5 colpi allora. Stringe i denti, chiede pietà.

– Ancora 5 colpi, schiavo, fallo per me.
Sopporta , si morde le labbra,  implora basta, la prego, basta.

Ok basta.

Mollette.
Lo bendo.
Mollette ai capezzoli, poi scendo, piano, seguendo il
sentiero dei piccoli morsi sui suoi fianchi per poi tornare
al centro sul suo scroto e su, su , lungo l’asta.

Geme, la bestiola in trappola. Lo sbendo e lui si guarda e geme di
più.
Via le mollette, lo slego, lo faccio alzare.
E’ eccitato come non mai.

Lo tocco, lo accarezzo adagio e poi più forte.
– Guai se godi schiavo, hai capito?
Ansima,  mi supplica di fermarmi. Continuo, lo minaccio di
nuovo.

– Guai a te se godi, ricordatelo!
Mi fermo. Si contorce, implora, sgocciola, soffre.
Lo mordo sulla spalla, grida dal dolore.
Lo tocco di nuovo.

– Guai a te schiavo se osi venire!
Piange quasi, che carino….si contorce ma resiste.
E’ divertente questo schiavetto tamarro, forse lo terrò un
po’ in prova.
– Ora basta, piccolo. Rivestiti.

Sul divano di nuovo,  gli ho dato una coca, lui beve,
sorride impacciato.
Vestito ritorna ad essere quella cosa tamarra e burina
che ho visto arrivare solo due ore prima.

Mi guarda, sembra imbarazzato, anzi, lo è proprio.
Gli chiedo cosa c’è.
Lui dice che non sa come dirmelo ma …ma….ma….

– Ma che?
– Mi scusi ma non penso di poter essere il suo
schiavo….non so….è che non la sento come Padrona….e
poi, non so…la fisicità…la chimica…non so, non c’è
la chimica….non so ma non penso possa funzionare, ecco.
Ci resto di stucco.

Ma come?
E io che pensavo vabbeh, non è un granchè ma poverino,
diamogli un’altra chance……

Ok, mi ha tolto ogni preoccupazione, il tamarrino!
E  io che ho sempre paura di ferirli…….

Brevi attimi di invidia

“Io credo che il bdsm sia affidarsi, fondamentalmente.
Quando senti per la prima volta che vieni legato e perdi il
controllo su te stesso e lo affidi a un’altra persona.
Quell’emozione è L’EMOZIONE.
Nemmeno a un dio, da ateo, mi affiderei così.”

Parlavo con uno schiavo . Le parole qui sopra sono
sue. Leggendole, ho avuto per un attimo la sensazione di
perdermi qualcosa di grosso.

Questo senso di abbandono totale nelle mani di un altro pare
proprio un’emozione molto intensa che però io non mi son mai
permessa. Non ne sono capace.

Non riesco nemmeno a pensare di “delegare” la responsabilità
di me , del mio corpo e della mia mente, a qualcun altro.
Sono letteralmente impossibilitata a fidarmi di
qualcuno; vivo nel costante controllo di me e delle mie
emozioni, permeata da un senso di responsabilità tale che  fa di
me , forse, una Mistress degna di fiducia ma che mi
impedisce di lasciarmi andare completamente.

Lo schiavo, che è mero giocattolo nelle mie mani,
un essere che io plasmo e di cui posso abusare e godere,
o che posso punire e rinchiudere e tenere prigioniero è,
al fine, ben più libero di me.
Lui sa lasciarsi vivere, sa abbandonare le paure e librarsi alto in volo
perchè si fida di me, “sa” che non lo lascerò schiantarsi al suolo.

E qui , ancora, sbuca fuori, subdola, l’idea di ciò che
mi perdo.

Invidio chi ama .
Invidio chi sente battere il cuore all’impazzata.
Invidio chi si emoziona e lascia che la sua mente voli via.
Invidio chi ha questa folle capacità di abbandonare ogni
difesa e mettere la propria vita nelle mani di un altro.

Per qualche attimo, si, l’invidio.
Ma subito dopo torno a chiudermi in tutta fretta
nella mia controllata, rassicurante,  follia.

Elogio del bruttino

In vita mia ho avuto uomini bellissimi, a partire dal mio primo marito fino all’ultimo amante vanilla.  Uomini con facce da attori e corpi scultorei, uomini che facevano girare le donne per strada.

Sono un’esteta, una che ama il bello in ogni sua manifestazione e quando il bello si traduce in forma umana, rimango affascinata irrimediabilmente e tendo a impossessarmene, o meglio, a impossessarmi della forma, dell’immagine, per fissare per sempre la bellezza. Fare foto , infine , serve a questo. A rendere immortale la bellezza.

Bellezza ed eros, però, hanno ben poco  in comune. Questo l’ho capito solo qualche anno fa.

Ci fu un uomo, piccoletto e bruttino, ossessionato dalla mia bellezza, che mi inseguì per mesi e mesi. Me lo ritrovavo sempre attorno e non bastava cambiare città o nazione, dopo un po’ lo vedevo comparire, sorridente e gentile ma, diceva lui,   pronto a tutto per avermi.

Lui me lo ripeteva sempre, “farei di tutto per te”. Io ridevo, lo schernivo e mi allontanavo sottobraccio al bello di turno.

Un giorno però mi stancai e quando, per l’ennesima volta, lo vidi sbucar fuori  all’improvviso nel mezzo di una festa , gli dissi “ok, l’hai voluto tu!”. Lo spinsi contro il muro e gli strinsi i genitali con forza. Lui si piegò in due dal dolore ma la faccia che aveva era trionfante  e sussurrò “grazie”.

Gli mollai uno schiaffone. Lui cadde in ginocchio ai miei piedi e mi baciò una scarpa. Gli tirai un calcio. Lui continuava a sorridere e ringraziare. Gli diedi un altro calcio ma arrivò qualcuno a fermarmi. Me ne andai infuriata; quella scena, però,  mi rimaneva nella testa e stranamente mi faceva sentire eccitata.

Dopo una settimana lo rividi a un party. Mi guardava da lontano sorridendo e io desiderai di averlo sotto i miei piedi.

Come andò a finire si può bene immaginare. Devo dunque a  un piccoletto bruttino e ostinato  la scoperta delle mie pulsioni erotiche più profonde.

La bestia

La bestia che è in me questa notte ruggiva forte e mordeva coi denti aguzzi la pelle di velluto della piccola schiava. Tutta colpa del caldo, di questa estate che non vuole morire, di quest’afa pregna di umidi profumi e di questa mia natura animale che sente scorrere  il  tempo  e non lo può arrestare.

Tutta colpa dello schiavo assente, del suo corpo di statua greca, del suo odore di spezie d’oriente e del suo piccolo piccolo cervello inutile. Chi ha mai detto che occorra parlare per capirsi? I miei migliori discorsi li ho fatti ruggendo…o mugolando.

Moments in love

Piccolo papero, sta per arrivare il momento in cui  stacchero’ una ad una  le tue bianche piume e ne farò un guanciale per il mio letto. Tu, tenero cucciolo, guairai ogni volta che la mia mano si abbatterà sul tuo muso, sui tuoi fianchi, sul tuo petto graffiato, segnato, rigato di rosso sangue.

La mia voce si farà più dura, la tua si strozzerà, porcellino sgozzato che grida e che supplica e al contempo si offre, si apre, impudico , voglioso, stracolmo di desiderio. Ti offrirai , spalancato e tremante, lascivo e spaventato, il cuore che batte forte, il respiro affannato. Non dovrò far altro che sfiorarti, con un dito, con un’unghia laccata di nero, col mio respiro, con la punta del mio frustino e tu cadrai in ginocchio implorandomi di farti mio.

Si. Sarai mio, così. Da un momento all’altro la tua vita passerà sotto il mio controllo e tu , felice, perso nel tuo limbo, nella tua nube di desiderio, assorto in contemplazione del mio potere caldo e umido , starai fermo, in ginocchio, finalmente nudo , spogliato delle finzioni di una vita vuota, trasparente quasi, sciolto in un lago di piacere e di verità.

 

Piccolo papero, le tue bianche piume volteggiano nell’aria e pian piano si posano sul tappeto. Bacio la tua bella faccia stravolta dal dolore e dal piacere, asciugo con la lingua le tue lacrime e cospargo di olii emollienti i tuoi segni. Tremi e piangi,  finalmente libero, finalmente schiavo , finalmente mio.

Divorando e divorata

Io non ho mai amato nessun uomo.
Già, direi proprio di no.
Ho amato l’idea di amarli, questo si.
Ho amato me che li amavo, forse.
Quanto mi piacevo languida e gelosa,
tenera moglie, amica vogliosa.

E mi piaceva ancor più il brivido del tradimento…
E lì, giusto lì spariva la visione , puff!
E mi perdevo.
Non mi vedevo più.
Correre via, lontano , era il rimedio.
Nascondermi , avvolta in altre braccia ,
occhi chiusi ,  baci sulla faccia.

No, mai amato nessuno.
Nessun uomo, nessun amante…
Oh si, amante, si, colui che ama e ama me.
Io fuggivo e loro mi amavano, mi rincorrevano.
Io la lepre, loro i cani.

Può un cane amare la lepre?
Vuol mangiarla, divorarla semmai
ma amarla, no, questo mai!
Così vissi.

Mai amando e mai amata,
divorando e divorata.

Sabato sera

Ci fu un tempo in cui rimanere in casa il sabato sera mi sembrava inconcepibile, quasi un disonore, un’ammissione di solitudine e cosa c’era, in quegli anni,  peggio della solitudine?
Correvo da una parte all’altra del mondo, sempre con l’ansia di arrivare in luoghi dove non ci fosse nessuno ad attendermi, a spiegarmi come fosse il posto, cosa ci fosse da fare e soprattutto chi ci fosse da conoscere, da incontrare, da fotografare.
I contatti all’estero sono fondamentali, ti danno la sensazione di non esser sola in mezzo al nulla, fra gente che non hai mai visto prima e che non rivedrai probabilmente mai più.
Gente che non sa nulla di te e che non ti ama, non ti odia, sta lì e sorride solo perchè paghi le informazioni che ti da’, paghi le sue parole, paghi la sua testimonianza, paghi paghi paghi.
A volte però basta una manciata di riso  per far foto a qualcuno che ti renderà famoso, o magari non famoso ma di sicuro ti assicurerà il prossimo ingaggio.
E così arrivi al sabato sera e sei sola e persa in un luogo che non sai e quei sabati sera lì, al riparo di  una tettoia di lamiera che fa un baccano insopportabile sotto la pioggia tropicale, o arrampicata sugli sgabelli del bar dell’unico hotel frequentato da occidentali , quei sabati sera polverosi che sanno di Sahara o di Patagonia o puzzano come puzza il lago Aral e la sua isola degli orrori, beh, son sabati sera che ti riempiono la vita e la memoria e che ti fanno amare questi sabati sera qui, al caldo, seduta a ricordare di fronte  a un monitor aperto su google map!

Muezzin

– Eccolo, senti che bellezza questo canto…
Fa buio da un po’ ma è ancora caldo. La terrazza coperta dove stiamo cenando è attraversata da un leggero vento che porta fin quassù il profumo del mare vicino e la voce del muezzin.
– Senti come canta, non sta parlando, canta! E’ il muezzin più bravo che abbia mai sentito!

Mi affaccio e guardo i tetti attorno , ombre che si muovono qua e là nel buio, rischiarate solo da un piccolo lume a olio o da qualche candela. Profumi di cibo, spezie, salmastro e ancora, insistente, sempre presente, l’odore acre che si avverte ovunque, odore di escrementi umani e animali, odore di cibi andati a male, di grasso rancido, di fatica e sudore e stracci sporchi.
Vivo qui da un mese e ancora non mi sono abituata all’odore. Il mio naso rimane l’unica parte di me che non apprezza questa città. Non fosse per l’odore io starei proprio bene in questo luogo fuori dal tempo, rimasto miracolosamente fermo al medioevo; niente modernismi, niente auto, niente motori che fanno rumore, niente elettricità. Eppure la gente è sorridente, il cibo è buono, il mare è trasparente, si vive con due lire e quando scende la notte c’è questo muezzin che mi incanta e mi fa sognare.
E all’alba, quando il sogno cede adagio il passo alla realtà,  la sua voce mi arriva insieme al profumo del mare e dei datteri e mi ricorda che sono in terra di Allah misericordioso e che è ora di ringraziarlo.

Stupid!

Che non fosse un’aquila lo sapevo da un pezzo. Però era bello e mi piaceva guardarlo. Così l’ho tenuto vicino, l’ho messo sotto l’ala , l’ho svezzato, se così si può dire per certe faccende….
Ma da uno stupido ci si deve sempre guardare, perchè uno stupido è imprevedibile e può sempre far del male proprio perchè non capisce la differenza fra il bene e il male.
Vabbeh che poi, se ti vuole ingannare,  te ne accorgi subito , te ne accorgi ancor prima che se ne accorga lui.  Perchè è stupido e inventa  scuse stupide,  che vuoi che faccia…

E quando tu gli dici di smetterla di raccontar balle , lui nega nega nega e tu lo ammazzeresti perchè lo sai che son balle , perchè è così ovvio che lo siano, perchè ci vuol testa a raccontar balle credibili e lui è solo un piccolo piccolo stupido.
Le sue stupide bugie….ridicole! Patetiche scuse senza fantasia, senza immaginazione, senza vita…….tristezze banali di banale vita. Ridicole, si, ridicole. E quando una bella cosa diventa ridicola, per bella che possa essere, cessa inesorabilmente di essere attraente.

Si, sono incazzata …..

Sono incazzata perchè non era un’aquila, no, ma era bello ed era pure docile, un agnello! Un agnello bello e stupido da immolare sull’altare della vanità.

Sono incazzata perchè di uno stupido non rimane nemmeno il bello ma solo la stupidità.

Case

La casa era gialla e immensa e io me ne stavo distesa sul prato a guardare il cielo. Un bambino di otto anni, due più di  me,  correva tutto il giorno nel giardino assaltando castelli e uccidendo draghi per salvarmi  dal malvagio incantesimo. La notte tendevo trappole ai pipistrelli e per Natale si recitava il rosario nella stalla. Avevo anche una mucca tutta mia che si chiamava Pierina. Il periodo più felice della mia vita.

La casa era marrone e piuttosto grande. La sera ballavo nella mia stanza per non pensare che la vita scorreva là fuori e non mi aspettava. Soffocavo, soffocavo. Dovevo scappare via.

La casa era rosa, piccoletta, ci stavamo poco tempo e lo spazio non contava. In breve la riempimmo di tutto e dopo un po’ non fu più possibile capire come riordinarla. Non ci rimase che andar via.

La casa era un albergo, un giorno in mezzo a una grande città, un giorno in un’altra, un giorno in riva a un fiume, vicino a una cattedrale, raramente vicino al mare. Aeroporti , aeroporti, aeroporti  e poi stazioni, taxi, teatri, magazzini, scalinate, antichi  palazzi, cambiarsi ovunque, smettere di essere una ragazza e diventare finalmente donna.

La casa era un luogo mentale, diversa come diversi erano gli occhi e la pelle della gente che incontravo. Per un po’ fu una casa azzurra con la bouganville che ne copriva mezzo tetto. Poi ci fu la casa nel compound, bianca e piena di scarafaggi, ma sul balcone cresceva spontanea un’orchidea. Dopo fu la volta della casa dei sogni, con le finestre da cui si vedeva il mare e gli askari al cancello che mi davano così tanta sicurezza. Poi ….poi…

La casa era grigia, grigia del cemento ancora da pitturare. Mancava tutto tranne il giardino. Così la scelsi e cominciai a sistemarla. C’era un’ora , verso il tramonto , in cui le due vetrate del soggiorno , per uno strano gioco di luce, si tingevano di  blu e io restavo in silenzio, seduta in terra, a respirare la mia nuova casa nella sua ora blu. Antiche mura che chissà quali vite avevano custodito negli anni. E adesso c’ero io, lì dentro, chissà per quanto.

La casa sarà bianca. Avrà grandi finestre e grandi stanze silenziose. Si sentirà solo il rumore del mare e il soffio del vento. E i versi degli animali.Sarà la mia ultima casa, quella che ancora forse non esiste ma che mi attende là fuori da qualche parte intorno al tropico del capricorno.