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Liberi liberi liberi
Agli inizi internet fece paura. Spaventò il potere. Perbacco, tutta questa gente che comunica, che parla, che si scambia idee e numeri di telefono, tutte queste teste che pensano, queste menti che interagiscono, aiuto, finiranno per mettersi insieme, per formare un gruppo enorme capace di dettar legge. E di far cambiare quella attuale, quella che garantisce ai potenti di rimanere potenti e ai poveracci di fottersi da sé. Si tentò dunque di porre un limite. Si tentò la censura…. Chiudi quel sito che dice troppa verità, per dio, stanno spogliando il re, anzi, è già nudo…Qualche nazione mise dei blocchi tali che la comunicazione risultò impossibile col risultato che la gente si sentì davvero in gabbia. Qui da noi e più in genere nell’occidente “evoluto e libertario”, la lezione fu utilissima e così, anziché censurare le “zanzare” che infastidivano il potere, , venne tolto qualsiasi divieto. Si diede la libertà assoluta al popolo di comunicare, di navigare, nacquero i social e iniziarono a fioccare selfie, like e cinguettii . Meraviglia, no? Meraviglia si, perché ognuno , ogni singola persona, si immaginò di essere libera e liberamente prese a scrivere di sé; ogni singola persona si mise in mostra, come su un palcoscenico e chi più riceveva commenti più si sentiva importante. Milioni e milioni di piccole illusioni, tette e culi e addominali scolpiti, piatti elaborati di cibi complicati, la moto, il costumino, la torta di compleanno, il bambino, il cagnolino! La libertà, infine, di far vedere la propria intimità. La libertà, ancor più diffusa, di criticare la libertà altrui, risse epocali sulla lunghezza del pene del mulo, sulla qualità del pelo di culo, del destino del clandestino, del diritto del babbuino. Risse ovunque, anche per contraddire chi contraddiceva, per insultare chi insultava, per negare chi negava. E chi annegava. Come quelli che galleggiavano nel mare, che galleggiano anche oggi, con gli occhi in su verso il cielo che non vedranno più. Questo è il successo della comunicazione globale. Il potere ringrazia il popolo per essere così animale. Senza offesa per le bestiole, sia chiaro.
La ladra
La famiglia tradizionale è contro natura
I falsi problemi e la bestia
Noi donne, noi dee
La distinzione del sé dall’altro da sé, ossia la consapevolezza della nostra soggettività, è , forse, quello che si potrebbe definire “il peccato originale”. Lungi da storielle di serpenti e pomi, l’essere umano si distacca dall’unicità del tutto rendendosi conto di essere una cosa a se stante. La coscienza del sé, della propria vita autonoma, se da una parte ci ha condotto alla costruzione di tutta questa cattedrale psico-poetico-tecnologica, dall’altra ci ha allontanati dal seno e dal senso della Madre, la Madre Terra che ci ingloba, ci nutre, ci accoglie. Ci espelle simbolicamente con la nascita e ci fa tornare a lei con la morte per poi farci rinascere in un ciclo continuo. Cancellare questa intrinseca connessione col tutto ha significato distaccarsi dal tutto, divenire ospiti e non più familiari. E questo ha comportato anche una rivoluzione eccezionale rispetto all’idea della morte che diviene *fine inesorabile della vita* poiché l’umano, non essendo più fatto della stessa materia immortale del mondo, smette di far parte del ciclo immortale vita-morte-vita che pertiene al tutto e diviene mortale. Finito. A scadenza limitata. Questo ha fatto la consapevolezza di essere unici, unità a se stanti.
E’ a quel punto che nasce il culto della Dea, colei che sa dare la vita. Immagino sia stato un bel periodo, quello, per le donne, considerate al pari di divinità proprio per la loro magica capacità di mettere al mondo altri esseri umani. Poi le cose sono andate come sono andate, i maschi han dovuto far la ruota per molti secoli per riuscire a farsi scegliere dalle Dee, han dovuto competere fra loro , sfidarsi e vincere il rivale, farsi belli più degli altri, più forti, più grossi, più idonei alla riproduzione. E a un certo punto si devono essere stancati di dover sottostare al desiderio delle donne per poter avere una discendenza , ossia per eternizzare il loro corredo genetico, e han cominciato a usare la forza.
Ecco un altro possibile scenario in cui si ritrova l’idea di “peccato originale”, ossia la prima volta nella storia dell’umanità (che a questo punto possiamo iniziare a chiamare *disumanità*) in cui un umano maschio concepisce la violenza contro la femmina, andando contro ai dettami della selezione naturale. E da lì in poi la società umana primitiva inizia a vivere secondo usi (questi si!) *contro natura* poiché le leggi che regolano l’adattamento non privilegiano sempre la “bestia più forte”, più potente, più bella o più aggressiva.
Il risultato di tale scempio lo vediamo ben rappresentato oggi.
Quella umana è infatti una società che si regge sul comportamento violento, aggressivo e disgregante, dove tutti sono in competizione contro tutti, donne comprese; d’altra parte circa seimila anni di patriarcato hanno determinato di certo cambiamenti profondi nella psiche femminile, forse persino a livello di DNA.
Oggi però almeno sappiamo come mai spesso ci comportiamo ricalcando il modello patriarcale. Ma di certo non ci viene facile riconoscerne l’influenza sui nostri comportamenti quotidiani. E non è certamente facile per nessuna donna ricercare e ritrovare l’unità del tutto; spesso non sappiamo quasi nemmeno da che parte cominciare a scavare per dissotterrare le nostre ossa , la nostra dimensione olimpica di semi-dee capaci di solidarietà e alleanza , di *sorellanza* perfino.
In questa dimensione la diversità (la competizione, il protagonismo) perde importanza proprio perché sappiamo che non esiste diversità, come quando vediamo le nostre sorelle, le nostre figlie, le nostre madri, diverse da noi ma uguali a noi , fatte della stessa materia , della stessa polvere di stelle.
L’unità, la solidarietà, la collaborazione . Questo è il fine (che è anche il principio) che dobbiamo raggiungere. Ci riusciremo? Auguriamocelo, poiché è in gioco il futuro della nostra specie.
Quel che rimane di te
1/9/2015
E così ti son venuta a prendere. Alle 15, come d’accordo. Il cielo si è scurito all’improvviso e il vento faceva volare la mia veste nera. Ha anche piovuto un po’, quasi come a chiarire che quel momento lì era ben diverso dal resto del giorno caldo e soffocante.
Ti ho messa sul sedile di fianco a me, ti ho passato attorno la cintura di sicurezza m…a nelle curve dovevo tenerti ferma che’ le cinture di sicurezza non son fatte per tener fermo un ricordo. E ti ho portata a casa, finalmente. A casa tua e del tuo vecchio ragazzo, quello un po’ scassato che fa il forte e finge di esser capace di non piangere. E invece sai che tutti i giorni capita che mentre sta parlando, a un tratto un pensiero o un’immagine gli passan per la testa e così, improvvisamente, gli si inumidiscono gli occhi e lui dice che è colpa del fatto che in ospedale non si può lavare la faccia come si deve.
Quando ho aperto la porta di casa mi è sembrato di sentire odore di incenso. Che strano. Son giorni e giorni che non ci va nessuno, nemmeno la signora delle pulizie che tanto non c’è niente da pulire, niente da lavare, niente da preparare per nessuno.
Ho spostato la statua che stava nella nicchia, sotto c’erano gli assegni che il tuo vecchio ragazzo ha firmato in bianco a mio nome nel caso fosse morto.
Uno mi servirà per pagare il tuo funerale, giovedi.
E così ti ho messa sul piccolo piedistallo dentro la nicchia, le tue ceneri rinchiuse nell’urna nera col tuo nome e cognome e la data di nascita.
E di morte. 25 agosto 2015.
L’urna è sigillata con la cera lacca di un bel color arancio con stampigliato , penso, il timbro del Comune.
Ecco, siamo finalmente a casa, mamma. Finalmente in pace. Il tuo vecchio ragazzo ha detto che così starete sempre insieme. Poi ha tagliato corto e ha chiuso la telefonata e io son quasi certa che abbia pianto e questo non va bene, che’ poverino è vecchio e un po’ scassato e la notte fa brutti pensieri.
Mi son raccomandata coi medici che la sera gli diano qualcosa per dormire. Che almeno il suo sonno sia sereno.
Ho aspettato un po’ prima di andar via. Mi sembrava di doverti salutare in un modo un po’ speciale e però non mi è venuto niente di speciale.
Ho solo pensato che dentro a quella piccola urna c’era tutto quello che rimane di te e davvero l’unica cosa che ho saputo fare è stato piangere.
Il carnivoro orgoglioso
La Dea usurpata
Se esiste qualcosa o qualcuno che si possa avvicinare o assimilare alla divinità, queste sono le donne. La nostra deità si traduce nella capacità di generare , di creare altra vita. Siamo il mezzo di cui si serve il Mistero per trasportare la vita da un mondo all’altro. Cosa c’è di più divino in questo mondo terreno? Siamo traghettatrici di vita, siamo il mezzo prescelto . Eppure, nei millenni, questa nostra peculiarità, anziché renderci il merito e il rispetto che ci spetta, ci ha rese schiave. Ci ha viste usurpate, straziate, degradate proprio perché la nostra vicinanza alla deità ha fatto si che il maschio si rendesse conto della sua “non-deità” ovvero del suo essere mortale. E da lì in poi è stata sua cura mortificarci il più possibile, cancellando la nostra santità come fa qualsiasi usurpatore che si sostituisca all’usurpato. Persino la deità è diventata maschio, come se fosse il corpo del maschio a concepire e dare la vita. In Natura il maschio è considerato accessorio, è la femmina che sceglie il maschio , è la femmina che crea-confeziona la vita. “L’impollinatore” è secondario ed è scelto rigorosamente dalla femmina. E’ nella in-cultura umana che si è agito abusando a tal punto la Donna da rendere pater familia il maschio. Ebbene, siamo noi donne la Mater familia, siamo noi donne le detentrici della scelta . Siamo noi che scegliamo a chi dare o no una discendenza, ossia un’illusione di eternità. Siamo noi che deifichiamo il seme del maschio ospitandolo nel nostro ventre. Al maschio spetta un ruolo comprimario e tutti i maschi che nella lunga storia scellerata dell’umanità si sono ribellati al loro ruolo secondario e hanno obbligato una femmina a eternizzare il loro DNA , hanno solo commesso un sacrilegio, un affronto scellerato alla legge di Natura. E i risultati li vediamo oggi.
Il dubbio
Perchè il dubbio c’è, c’è ancora, c’è sempre. Il dubbio che non sia vero , che in realtà io non ti abbia perdonata per niente. Il dubbio che la rabbia stia ancora lì, silenziosa, immobile, nascosta sotto questo lasciar che sia. Ma si, vada come vada, siamo umani, siamo fallibili, fallibilissimi, ma si, come pretendere che una madre non commetta sbagli, eh , anche lei non se l’è passata tanto bene, anche lei ha sofferto, patito, pianto. E allora occorre perdonare, lasciar andare, far come se non fosse successo niente di grave. Eh si, non è successo niente di grave, anzi, a dirla tutta non è successo niente. Niente di cui sentirsi responsabili, ecco qua. Perchè è vero, non son stata io la responsabile del tuo non amore, del tuo non amarmi o del tuo non farmelo sentire quel cazzo di amore che forse… forse… provavi per me. Ma poi, dico io, come avresti potuto amare me se nemmeno riuscivi ad amare te stessa. Come avresti potuto stare dalla mia parte se per sopravvivere dovevi stare contro di me?
Ci son cose che non si possono dire, nemmeno a se stessi.
Ci son cose capaci di uccidere senza bisogno di lame e veleni. Vite negate in partenza, sprofondate nella paura e nella colpa. Come avresti potuto amarmi, come avresti potuto scegliere me se non potevi, non riuscivi a scegliere te stessa. Eh già. Però io lo avrei preteso lo stesso. Io avrei voluto che ti schierassi dalla mia parte. Io ero la tua stessa carne, io ero la tua stessa pelle, ero la piccola bestia affamata che urlando di dolore ti chiedeva di amarla.
Voglio solo che tu mi voglia bene! Ricordi? Eravamo in cucina, avevo 7 anni, mi avevi picchiata come facevi ogni santo giorno per sciocchezze che solo tu consideravi così gravi da dovermi sculacciare o prendere a schiaffi. Non rompevo mai niente, non facevo cose assurde, ero la bambina più educata e buona del mondo e tu mi piacchiavi ogni giorno, ogni maledetto giorno al punto che la prima volta che arrivai a sera senza esser stata picchiata fui così stupita che pensai di esser finalmente diventata grande. E invece non ero diventata grande, era stata solo una pausa della tua nevrosi. Voglio solo che tu mi voglia bene, ti gridai. E tu dicesti che ero stupida e certo che mi volevi bene, mi picchiavi proprio per quello.
Davvero, in questi anni ho provato a sentire compassione per te, per tutto il dolore che ti sei portata addosso, per tutto il male che non hai avuto la forza di cacciare via. Per la vita che non sei stata capace di prenderti. Mi dispiace per te, si, perchè hai buttato via la tua vita.
Un giorno mi hai detto che al mondo non c’era nessuna cosa che ti piacesse. Non esisteva nulla che ti desse piacere. E, se da una parte mi hai fatto una gran pena, che’ davvero non riuscire a trovare niente di bello in questa meraviglia di mondo è terribile, dall’altra mi hai fatto una gran rabbia. Io ero lì, ero tua figlia, dovevo essere io la cosa bella della tua vita. Le mamme normali vivono per i propri figli, trovano la forza di fare di tutto per i propri figli, anche di vivere e sopravvivere. E invece tu mi sbattevi in faccia la realtà : io non contavo abbastanza per farti dire che almeno una cosa bella al mondo ce l’avevi.
Mi viene da piangere e sai, dubito tanto di non piangere per te ma per me.