Subumani

Mi è tornata in mente una storia che qualcuno mi raccontò qualche anno fa. Si parlava della questione animale, del diritto che la specie umana si arroga senza giustificazione nell’imporre una gerarchia di valori in cui ovviamente gli umani stanno sulla vetta.
Come se la specie umana fosse superiore o migliore delle altre. Come se avessimo qualche diritto più degli altri animali che, a differenza nostra, non creano danni irreparabili al Pianeta e non dimostrano nemmeno lontanamente di essere cretini , incivili e irresponsabili quanto noi.
Perché gli umani eccellono, è vero, in qualche specialità, ma quelle “davvero buone” sono dominio di pochi mentre quelle “stupide e cattive” caratterizzano la maggioranza. Come la stupidità, per l’appunto, diffusissima.
Basta iscriversi a un social per averne la conferma.
Per non parlare della violenza, della cattiveria, della meschinità.
Tentare di riequilibrare le parti, è impossibile; anche mettendo insieme tutte le più belle invenzioni scientifiche, le opere d’arte e le buone azioni , dal sapiens ad oggi, non si pareggerà mai tutto l’orrore, tutta la malvagità, tutto il dolore agiti dalla specie umana.
Ma questo non sembra grave, non al punto di riconoscere onestamente la nostra colpa e iniziare a porci qualche domanda sulla liceità delle nostre azioni scellerate che sembrano agite da un popolo di bambini egocentrici del tutto ciechi di fronte alla sofferenza che recano alle altre creature.
Uno dei luoghi di dolore e di morte che gli umani sembrano non riuscire a vedere, sono i mattatoi, i macelli, dove ogni giorno vengono ammazzate migliaia di bestie. Il mattatoio non esiste. Esistono le bestie vive e poi, improvvisamente, esistono le bistecche, i salami, gli spiedini . Fra bestie vive e carne c’è soluzione di continuità. Uno stacco emozionale, una rimozione, per l’appunto, che non permette di mettere in connessione le une all’altra.
Rimozione, dunque.
Ma nel macello cosa avviene? Arrivano delle bestie spaventate (sentono l’odore del sangue, sentono le grida degli altri animali entrati prima di loro) e delle persone le spingono verso un percorso che le condurranno davanti al boia. Il boia se ne sta lì, indifferente, con una pistola in mano e pum pum pum, un colpo in testa e la bestia cade, scivola in mezzo a ganasce di ferro che la trasportano via, lungo la linea della macellazione. Le bestie sanno cosa succede in quei posti, hanno antenne ben più sviluppate delle nostre e di solito indietreggiano, cercano di sottrarsi alla morte, alcune, quando son lì davanti al boia, si agitano , scuotono la testa , gridano, qualcuna tenta perfino di leccare la mano del boia, come a chiedere la grazia che lui, naturalmente, non concederà.
Pum pum pum.
E la storia che mi è tornata in mente oggi è la storia di uno di questi boia che era il padre della persona che me la raccontò.
Questo boia era vecchio del mestiere, uno di quelli che insegnavano ai giovani ad ammazzare le bestie. Ed era molto severo perché se sbagli a sparare ferisci la bestia ma non la stordisci, non la fai fuori, e la bestia soffre, soffre proprio come una bestia ferita a morte.
E si rende conto che sta morendo mentre già la stanno facendo a pezzi, mentre le tagliano la gola, le squartano il torace, le segano i tendini.
Dunque questo boia era uno che, dopo aver ammazzato forse milioni di bestie, si era fatto un punto d’onore di far fuori le bestie facendole soffrire il meno possibile.
E questo la dice lunga. E spiega in parte anche il perché, a cinquant’anni, un bel giorno si sparò.
Un suicidio che non sembrava avere motivazioni.
Ma la vita diventa insopportabile quando, così, improvvisamente, si aprono gli occhi e ci si rende conto di aver fatto cose atroci. Azioni di cui l’inconscio aveva preso nota pian piano nel tempo e quel giorno lì, chissà perchè, decide di presentarci il conto.
Pum pum pum.
Il boia vide dunque , tutt’a un tratto, la realtà. La vide per la prima volta o forse, diciamo meglio, aprì gli occhi.
Si rese conto di essere un assassino. Né più né meno. Si rese conto che la vita di una bestia non era di certo meno piena di desiderio e di bellezza della sua . Si rese conto che il dolore, la paura, il terrore di fronte alla morte ci rendono tutti, tutti, tutti uguali. Umani e bestie.
E si sparò. Come aveva sparato in testa a tante bestie.
Pum.
Fa quasi pena, questo suicidio. E dico quasi perché un assassino resta pur sempre un assassino benché non consapevole di esserlo.
Fa quasi pena perché in fondo quel boia un po’ di cuore ce lo aveva e fu proprio quel po’ di cuore a giocargli lo scherzetto. Mentre ci son tanti subumani che non si rendon conto di nulla, che seguitano a far del male alle altre creature, umane e bestiali , come se fosse un gioco e nulla più. Subumani senza cuore e senza cervello che spargono il dolore e la sofferenza intorno a sé, come se fosse divertente, come se fosse loro pieno diritto prendere a calci un cane o una donna o un immigrato.
O sparare in testa a una bestia nel macello.

Liberi liberi liberi

Agli inizi internet fece paura. Spaventò il potere. Perbacco, tutta questa gente che comunica, che parla, che si scambia idee e numeri di telefono, tutte queste teste che pensano, queste menti che interagiscono, aiuto, finiranno per mettersi insieme, per formare un gruppo enorme capace di dettar legge. E di far cambiare quella attuale, quella che garantisce ai potenti di rimanere potenti e ai poveracci di fottersi da sé. Si tentò dunque di porre un limite. Si tentò la censura. Chiudi quel sito che dice troppa verità, per dio, stanno spogliando il re, anzi, è già nudo…Qualche nazione mise dei blocchi tali che la comunicazione risultò impossibile col risultato che la gente si sentì davvero in gabbia. Qui da noi e più in genere nell’occidente “evoluto e libertario”, la lezione fu utilissima e così, anziché censurare le “zanzare” che infastidivano il potere, , venne tolto qualsiasi divieto. Si diede la libertà assoluta al popolo di comunicare, di navigare, nacquero i social e iniziarono a fioccare selfie, like e cinguettii . Meraviglia, no? Meraviglia si, perché ognuno , ogni singola persona, si immaginò di essere libera e liberamente prese a scrivere di sé; ogni singola persona si mise in mostra, come su un palcoscenico e chi più riceveva commenti più si sentiva importante. Milioni e milioni di piccole illusioni, tette e culi e addominali scolpiti, piatti elaborati di cibi complicati, la moto, il costumino, la torta di compleanno, il bambino,  il cagnolino! La libertà, infine, di far vedere la propria intimità. La libertà, ancor più diffusa, di criticare la libertà altrui, risse epocali sulla lunghezza del pene del mulo, sulla qualità del pelo di culo, del destino del clandestino, del diritto del babbuino. Risse ovunque, anche per contraddire chi contraddiceva, per insultare chi insultava, per negare chi negava. E chi annegava. Come quelli che galleggiavano nel mare, che galleggiano anche oggi, con gli occhi in su verso il cielo che non vedranno più. Questo è il successo della comunicazione globale. Il potere ringrazia il popolo per essere così animale. Senza offesa per le bestiole, sia chiaro.

La ladra

E all’improvviso si apre la porta e una donna vecchia, brutta e grassa entra e non sembra neanche far caso a me che sono proprio lì che mi dico “ecco, ci siamo, i ladri!” .
La scena è tutta qua, non c’è un prima o forse c’è ma non lo ricordo. E non c’è un dopo perché, forse per la paura, mi son svegliata e questo è tutto ciò che ricordo di un sogno di qualche giorno fa.
Io non ricordo quasi mai i sogni ma qualche volta qualcuno mi rimane ficcato in testa e mi gira nel cervello per giorni finché, improvvisamente, un flash, ed ecco che arrivo a comprenderne il significato.
E oggi è stato il giorno dell’illuminazione. Dopo aver pensato che fosse abbastanza bizzarra una ladra di quel tipo, vecchia, grossa , che entra in casa mia, nella mia vita, senza nemmeno stupirsi che io sia lì , senza nemmeno guardarmi, come se non ci fossi, in fine, o non ci fossi più, mi son resa conto che quella ladra ero io. Una sconosciuta entrata di soppiatto dentro di me, venuta per rubarmi le mie cose più preziose, la mia gioventù, la mia bellezza, la mia vita. Ecco perché mi fa così paura, la ladra, perché sono io che non sono più io.
Fatico a riconoscermi in questo corpo che sta cedendo, in questa carne che avvizzisce e in queste ossa che scricchiolano. Chi diavolo è quella vecchia grassa e brutta che mi guarda riflessa nello specchio? Sono io? Non ci credo.
Era ieri , era solo ieri che ero giovane e bella. Era solo ieri, accidenti! E la morte non esisteva. Non esisteva ne’ la morte ne’ il corpo doloroso e dolorante. Non esistevano le notti cupe e i risvegli col cuore in gola, l’acidità di stomaco e l’amaro delle occasioni perdute. E quella brutta, vecchia donna grassa che si è infilata in casa mia di soppiatto e che si è presa la mia vita, quella strega impietosa che mi ha avvolto nella sua magia , mi fa proprio paura.
Perché quella vecchia ladra è anche un’assassina che mi sta conducendo, inesorabile, verso la fine. Non c’è via d’uscita da questo incubo.

La famiglia tradizionale è contro natura

Continuano a girare “studi” , ovviamente in ambiente cattolico, dove si afferma che i figli di coppie omosessuali tendano più facilmente a sviluppare un orientamento omosessuale rispetto ai figli di eterosessuali. In pratica questi “studi” tendono a dimostrare la trasmissibilità (come se fosse un virus!) della gaytudine. Belli fessi, eh?
E la condanna alla famiglia omosessuale deriva dal fatto che “non è naturale”. E non è naturale perché due gay non possono procreare.
A questo punto bisognerebbe far due conti e, considerando il grave problema del sovrappopolamento del pianeta, si dovrebbe solo esser felici della sterilità di tante coppie. Siamo troppi, non ci sono risorse sufficienti per tutti (o per l’egoismo di tutti, diceva Gandhi) e dunque se la popolazione mondiale diminuisse , che so, del 50 %, non sarebbe un bene? No, non va bene, chi non procrea va contro natura! E il cattolico non va mai contro natura che è poi il volere di dio.
O almeno così crede.
Che’ in realtà son davvero poco logici , questi cattolici, e anche assai poco ecologici
Vorrei cominciare a leggere, in effetti, qualche studio che dimostri l’ innaturalità dell’eterosessualità, che’ forzare una mente e un corpo ad accoppiarsi solo con umani che presentino genitali del sesso opposto mi sembra davvero contro natura.
Per non parlare dell’obbligo a restare per tutta la vita sempre con lo stesso umano. L’eterosessualità e la famiglia eterosessuale così come è intesa dai cattolici , con tutti i suoi obblighi di fedeltà e sesso esclusivamente finalizzato alla procreazione, potrebbero funzionare solo se si riducesse l’essere umano a semplice macchina riproduttiva, deprivandolo di qualsiasi altro sentimento, interesse e desiderio; ma nel preciso momento in cui l’essere umano dimostra la sua complessità psicofisica, risulta evidente che l’eterosessualità, così come la fedeltà all’interno del matrimonio , siano scelte che limitano e castrano la natura umana.
Scelte che vanno contro il naturale desiderio dell’essere senziente e pensante.
Siamo infatti organismi altamente complessi, capaci di amare illimitatamente e non esiste nulla, né nella nostra fisiologia né nella nostra psiche, che ci possa o debba impedire , se lo desideriamo, di accoppiarci con individui del nostro stesso sesso; se proviamo attrazione mentale e intellettuale verso altre persone, per quale stupido motivo non dovremmo anche poter provare attrazione sessuale?
E se si prova desiderio e trasporto emotivo verso un altro essere umano, in base a cosa si può definire innaturale? E’ solo applicando al desiderio (naturale) un giudizio morale che si compie un atto contro natura. La morale, infatti, nasce come regola sociale atta a modificare e moderare il desiderio. Più contro natura di così…
E invece stiamo ancora qui a temere che un bambino che cresce in una famiglia di omosessuali possa essere “infettato” dall’omosessualità. Quello che dovrebbe far paura sul serio è che si persista ancora, nel 2016, a non capire che ciò che davvero va contro natura è proprio l’eterosessualità e la famiglia tradizionale.

I falsi problemi e la bestia

Io penso che la gravidanza surrogata non sia il problema , ma sia il riflesso di un problema. Penso che a monte di tutto ci sia la paura della morte e il desiderio/necessità degli umani di sopravvivenza. Far figli significa innanzi tutto questo: sopravvivere a se stessi. Ed è la risposta biologica e irrazionale a un *istinto* di cui la natura ci ha fornito per assicurare la prosecuzione della specie.
Gli umani hanno poi elaborato questa funzione biologica ammantandola di significati altri. Ma di fatto noi facciamo figli per “mandare avanti nel tempo e nello spazio” il nostro corredo genetico, qualcosa di noi che ci rende eterni, immortali.
Far figli , per chi crede, è assimilabile al desiderio umano di farsi dio. Ed è questo il punto di partenza del problema, non la gravidanza surrogata in sé, che’ se così non fosse non ci sarebbe nessuna necessità, da parte del “genitore committente” di far impiantare un embrione col suo stesso DNA.
La gravidanza surrogata è la conseguenza di un problema ancora più complesso, il più grande problema, probabilmente, che tormenta l’umanità da millenni.
Le società patriarcali e capitaliste soffrono in particolar modo di questo problema proprio perché la sopravvivenza alla propria morte è il tema centrale che affligge il maschio dominante. La fertilità della femmina (usata come riproduttrice ) risulta determinante per assicurare la trasmissione del proprio patrimonio genetico. Poco contano infatti i geni della femmina (che non ha dignità di essere umano) quanto quelli trasmessi alla discendenza dal maschio.
E questo è un comportamento tipicamente animale, non mediato dall’intelligenza o dall’etica sociale. L’animale maschio combatte con l’altro maschio per poter avere la femmina, ossia per potersi accoppiare e trasmettere alla prole il proprio corredo genetico di vincitore. La specie migliora in qualità e ha dunque più probabilità di non estinguersi.
Leggi di natura, nulla più.
Ma in una società che si ritiene civile e civilizzata queste “necessità animali” vengono taciute in particolare se possono ledere la “dignità del leader”, ossia del maschio; alla necessità animale si sostituisce il “nobile” desiderio di genitorialità, quando in realtà si sta solo ubbidendo a un istinto animale. E non ci sarebbe niente di male ad ammetterlo , per altro, poiché riconoscere la nostra istintualità non ci rende meno umani ma anzi ci permette di comprendere meglio i nostri (apparentemente) innati desideri.
L’istintualità, però, in un contesto sociale, deve essere rigorosamente tenuta a freno per impedire ai membri della società di scannarsi gli uni con gli altri; si nega dunque l’istinto per consentire una convivenza civile.
Si nasconde ciò che è “istintivo”, si nega l’animale , la bestia che è in noi e lo si rimpiazza con un feticcio, un simulacro che nasconda la realtà.
Io penso che da questa negazione nascano quasi tutti i problemi, a partire dalla violenza sulle donne (quando la donna non si assoggetta, quando pretende di essere riconosciuta come essere senziente e autodeterminato e dunque sfugge al potere del maschio) fino alla gravidanza surrogata (il maschio , per eternizzarsi, può ricorrere a un “utero qualsiasi”, tutto quello che gli occorre è denaro) .
E finchè non si risolverà il problema che sta a monte di tutto questa confusione, non si avranno risposte possibili.
L’umanità va ripensata completamente, questo è il fatto.
Il patriarcato, coi suoi valori di violenza, sopraffazione e competizione, va abbandonato.
L’idea stessa della morte come fine, come distacco dalla vita va rivoluzionata perché questa è un’idea patriarcale, è l’idea del conquistatore che vuole essere dio per decidere della vita altrui.

Noi donne, noi dee

La distinzione del sé dall’altro da sé, ossia la consapevolezza della nostra soggettività, è , forse, quello che si potrebbe definire “il peccato originale”. Lungi da storielle di serpenti e pomi, l’essere umano si distacca dall’unicità del tutto rendendosi conto di essere una cosa a se stante. La coscienza del sé, della propria vita autonoma, se da una parte ci ha condotto alla costruzione di tutta questa cattedrale psico-poetico-tecnologica, dall’altra ci ha allontanati dal seno e dal senso della Madre, la Madre Terra che ci ingloba, ci nutre, ci accoglie. Ci espelle simbolicamente con la nascita e ci fa tornare a lei con la morte per poi farci rinascere in un ciclo continuo. Cancellare questa intrinseca connessione col tutto ha significato distaccarsi dal tutto, divenire ospiti e non più familiari. E questo ha comportato anche una rivoluzione eccezionale rispetto all’idea della morte che diviene *fine inesorabile della vita* poiché l’umano, non essendo più fatto della stessa materia immortale del mondo, smette di far parte del ciclo immortale vita-morte-vita che pertiene al tutto e diviene mortale. Finito. A scadenza limitata. Questo ha fatto la consapevolezza di essere unici, unità a se stanti.

E’ a quel punto che nasce il culto della Dea, colei che sa dare la vita. Immagino sia stato un bel periodo, quello, per le donne, considerate al pari di divinità proprio per la loro magica capacità di mettere al mondo altri esseri umani. Poi le cose sono andate come sono andate, i maschi han dovuto far la ruota per molti secoli per riuscire a farsi scegliere dalle Dee, han dovuto competere fra loro , sfidarsi e vincere il rivale, farsi belli più degli altri, più forti, più grossi, più idonei alla riproduzione. E a un certo punto si devono essere stancati di dover sottostare al desiderio delle donne per poter avere una discendenza , ossia per eternizzare il loro corredo genetico, e han cominciato a usare la forza.

Ecco un altro possibile scenario in cui si ritrova l’idea di “peccato originale”, ossia la prima volta nella storia dell’umanità (che a questo punto possiamo iniziare a chiamare *disumanità*) in cui un umano maschio concepisce la violenza contro la femmina, andando contro ai dettami della selezione naturale. E da lì in poi la società umana primitiva inizia a vivere secondo usi (questi si!) *contro natura* poiché le leggi che regolano l’adattamento non privilegiano sempre la “bestia più forte”, più potente, più bella o  più aggressiva.

Il risultato di tale scempio lo vediamo ben rappresentato  oggi.

Quella umana è infatti una società che si regge sul comportamento violento, aggressivo e disgregante, dove tutti sono in competizione contro tutti,  donne comprese;  d’altra parte circa seimila anni di patriarcato hanno determinato di certo cambiamenti profondi  nella psiche femminile,  forse persino a livello di DNA.

Oggi però  almeno sappiamo come mai spesso ci comportiamo ricalcando il modello patriarcale. Ma di certo non ci viene facile riconoscerne l’influenza sui nostri comportamenti quotidiani. E non è certamente facile per nessuna donna ricercare e ritrovare l’unità del tutto; spesso  non sappiamo quasi nemmeno da che parte cominciare a scavare per dissotterrare le nostre ossa ,  la nostra dimensione olimpica di semi-dee capaci di solidarietà e alleanza , di *sorellanza* perfino.

In questa dimensione la diversità (la competizione, il protagonismo) perde importanza proprio perché sappiamo che non esiste diversità, come quando vediamo le nostre sorelle, le nostre figlie, le nostre madri, diverse da noi ma uguali a noi , fatte della stessa materia , della stessa polvere di stelle.

L’unità, la solidarietà, la collaborazione . Questo è il fine (che è anche il principio) che dobbiamo raggiungere. Ci riusciremo? Auguriamocelo, poiché è in gioco il futuro della nostra specie.

Quel che rimane di te

1/9/2015

 

E così ti son venuta a prendere. Alle 15, come d’accordo. Il cielo si è scurito all’improvviso e il vento faceva volare la mia veste nera. Ha anche piovuto un po’, quasi come a chiarire che quel momento lì  era ben diverso dal resto del giorno caldo e soffocante.

Ti ho messa sul sedile di fianco a me, ti ho passato attorno la cintura di sicurezza ma nelle curve dovevo tenerti ferma che’ le cinture di sicurezza non son fatte per tener fermo un ricordo. E ti ho portata a casa, finalmente. A casa tua e del tuo vecchio ragazzo, quello un po’ scassato che fa il forte e finge di esser capace di non piangere. E invece sai che tutti i giorni capita che mentre sta parlando,   a un tratto un pensiero o un’immagine gli passan per la testa e così, improvvisamente, gli si inumidiscono gli occhi e lui dice che è colpa del fatto che in ospedale non si può lavare la faccia come si deve.

Quando ho aperto la porta di casa mi è sembrato di sentire odore di incenso. Che strano. Son giorni e giorni che non ci va nessuno, nemmeno la signora delle pulizie che tanto non c’è niente da pulire, niente da lavare, niente da preparare per nessuno.

Ho spostato la statua che stava nella nicchia, sotto c’erano gli assegni che il tuo vecchio ragazzo ha firmato in bianco a mio nome nel caso fosse morto.

Uno mi servirà per pagare il tuo funerale, giovedi.

E così ti ho messa sul piccolo piedistallo dentro la nicchia, le tue ceneri rinchiuse nell’urna nera col tuo nome e cognome e la data di nascita.

E di morte. 25 agosto 2015.

L’urna è sigillata con la cera lacca di un bel color arancio con stampigliato , penso, il timbro del Comune.

Ecco, siamo finalmente a casa, mamma. Finalmente in pace. Il tuo vecchio ragazzo ha detto che così starete sempre insieme. Poi ha tagliato corto e ha chiuso la telefonata e io son quasi certa che abbia pianto e questo non va bene, che’ poverino è vecchio e un po’ scassato e la notte fa brutti pensieri.

Mi son raccomandata coi medici che la sera gli diano qualcosa per dormire. Che almeno il suo sonno sia sereno.

Ho aspettato un po’ prima di andar via. Mi sembrava di doverti salutare in un modo un po’ speciale e però non mi è venuto niente di speciale.

Ho solo pensato che dentro a quella piccola urna c’era tutto quello che rimane di te e davvero l’unica cosa che ho saputo fare è stato piangere.

Il carnivoro orgoglioso

Ed ecco che, dopo le raccomandazioni dell’OMS che invita la popolazione a limitare, se non abolire del tutto, il consumo di carne, sbucan fuori i birbantelli disubbidienti , i carnivori orgogliosi (orgoglioni!) che, in preda a una sorta di isteria collettiva, riempiono le loro paginette di foto di bisteccone e prosciutti e salamelle quasi a sfidare “mamma” OMS che si preoccupa per la loro salute. E sembra proprio si faccian vanto della loro imbecillità, come se salamelle e fegatini fossero un elisir di lunga vita che , oltretutto, li rende “sicuramente” più furbi, più fighi, più forti degli altri, quelli miseri e pavidi e sfigati che han scelto di non mangiar più le altre bestie.
O forse voglion semplicemente sfidare una Madama ancora più autorevole dell’OMS, quella terribile, vestita di nero e con la falce in mano, quella che inesorabilmente coglie ognuno di noi, chi prima chi poi. I carnivori prima, i vegetariani poi.
Se non fosse che gli ospedali son pieni di malati cronici affetti da patologie derivanti dal consumo di carne, malattie il cui costo altissimo ricade anche sulle mie spallucce vegetariane, mi verrebbe da dire “ E vabbeh, se la sono voluta!”.
E se non fosse che per dar da mangiare a tutte queste bestie si lasciano morire di fame milioni di persone …
E se non fosse che per far spazio agli allevamenti si è disboscato mezzo Pianeta e che l’inquinamento che ne deriva è responsabile dei cambiamenti climatici quasi al pari di quello prodotto dai composti petroliferi…
E se non fosse che tutte queste bestie ammazzate hanno un cervello, un cuore, dei sentimenti, capiscono, provano emozioni, dolore fisico, paura…
Ecco, si, se non fosse per tutte queste cose non mi sarei presa la briga di scrivere queste due righe per mandare affanculo tutti questi idioti che, nonostante si dica loro che si stanno suicidando da soli, si fanno un vanto dell’esser carnivori.
Ossia fessi e stronzi.

La Dea usurpata

Se esiste qualcosa o qualcuno che si possa avvicinare o assimilare alla divinità, queste sono le donne. La nostra deità si traduce nella capacità di generare , di creare altra vita. Siamo il mezzo di cui si serve il Mistero per trasportare la vita da un mondo all’altro. Cosa c’è di più divino in questo mondo terreno? Siamo traghettatrici di vita, siamo il mezzo prescelto . Eppure, nei millenni, questa nostra peculiarità, anziché renderci il merito e il rispetto che ci spetta, ci ha rese schiave. Ci ha viste usurpate, straziate, degradate proprio perché la nostra vicinanza alla deità ha fatto si che il maschio si rendesse conto della sua “non-deità” ovvero del suo essere mortale. E da lì in poi è stata sua cura mortificarci il più possibile, cancellando la nostra santità come fa qualsiasi usurpatore che si sostituisca all’usurpato. Persino la deità è diventata maschio, come se fosse il corpo del maschio a concepire e dare la vita. In Natura il maschio è considerato accessorio, è la femmina che sceglie il maschio , è la femmina che crea-confeziona la vita. “L’impollinatore” è secondario ed è scelto rigorosamente dalla femmina. E’ nella in-cultura umana che si è agito abusando a tal punto la Donna da rendere pater familia il maschio. Ebbene, siamo noi donne la Mater familia, siamo noi donne le detentrici della scelta . Siamo noi che scegliamo a chi dare o no una discendenza, ossia un’illusione di eternità. Siamo noi che deifichiamo il seme del maschio ospitandolo nel nostro ventre. Al maschio spetta un ruolo comprimario e tutti i maschi che nella lunga storia scellerata dell’umanità si sono ribellati al loro ruolo secondario e hanno obbligato una femmina a eternizzare il loro DNA , hanno solo commesso un sacrilegio, un affronto scellerato alla legge di Natura. E i risultati li vediamo oggi.

Il dubbio

Perchè il dubbio c’è, c’è ancora, c’è sempre. Il dubbio che non sia vero , che in realtà io non ti abbia perdonata per niente. Il dubbio che la rabbia stia ancora lì, silenziosa, immobile, nascosta sotto questo lasciar che sia. Ma si, vada come vada, siamo umani, siamo fallibili, fallibilissimi, ma si, come pretendere che una madre non commetta sbagli, eh , anche lei non se l’è passata tanto bene, anche lei ha sofferto, patito, pianto. E allora occorre perdonare, lasciar andare, far come se non fosse successo niente di grave. Eh si, non è successo niente di grave, anzi, a dirla tutta non è successo niente. Niente di cui sentirsi responsabili, ecco qua. Perchè è vero, non son stata io la responsabile del tuo non amore, del tuo non amarmi o del tuo non farmelo sentire quel cazzo di amore che forse… forse… provavi per me. Ma poi, dico io, come avresti potuto amare me se nemmeno riuscivi ad amare te stessa. Come avresti potuto stare dalla mia parte se per sopravvivere dovevi stare contro di me?

Ci son cose che non si possono dire, nemmeno a se stessi.

Ci son cose capaci di uccidere senza bisogno di lame e veleni. Vite negate in partenza, sprofondate nella paura e nella colpa. Come avresti potuto amarmi, come avresti potuto scegliere me se non potevi, non riuscivi a scegliere te stessa. Eh già. Però io lo avrei preteso lo stesso. Io avrei voluto che ti schierassi dalla mia parte. Io ero la tua stessa carne, io ero la tua stessa pelle, ero la piccola bestia affamata che urlando di dolore ti chiedeva di amarla.

Voglio solo che tu mi voglia bene! Ricordi? Eravamo in cucina, avevo 7 anni, mi avevi picchiata come facevi ogni santo giorno per sciocchezze che  solo tu consideravi così gravi da dovermi sculacciare o prendere a schiaffi. Non rompevo mai niente, non facevo cose assurde, ero la bambina più educata e buona del mondo e tu mi piacchiavi ogni giorno, ogni maledetto giorno al punto che la prima volta che arrivai a sera senza esser stata picchiata fui così stupita che pensai di esser finalmente diventata grande. E invece non ero diventata grande, era stata solo una pausa della tua nevrosi. Voglio solo che tu mi voglia bene, ti gridai. E tu dicesti che ero stupida e certo che mi volevi bene, mi picchiavi proprio per quello.

Davvero, in questi anni ho provato a sentire compassione per te, per tutto il dolore che ti sei portata addosso, per tutto il male che non hai avuto la forza di cacciare via. Per la vita che non sei stata capace di prenderti. Mi dispiace per te, si, perchè hai buttato via la tua vita.

Un giorno mi hai detto che al mondo non c’era nessuna cosa che ti piacesse. Non esisteva nulla che ti desse piacere. E, se da una parte mi hai fatto una gran pena, che’ davvero non riuscire a trovare niente di bello in questa meraviglia di mondo è terribile, dall’altra mi hai fatto una gran rabbia. Io ero lì, ero tua figlia, dovevo essere io la cosa bella della tua vita. Le mamme normali vivono per i propri figli, trovano la forza di fare di tutto per i propri figli, anche di vivere e sopravvivere. E invece tu mi sbattevi in faccia la realtà : io non contavo abbastanza per farti dire che almeno una cosa bella al mondo ce l’avevi.

Mi viene da piangere e sai, dubito tanto di non piangere per te ma per me.